Dall’esterno non è mai possibile accorgersi di cosa si celi all’interno.
Passi in quella via, una, dieci, cento volte e non ti si rivela mai nulla; cerchi di farti un’idea, credi che la crosta possa alludere alla briciola dentro, ma quella che ti si mostra è solo e sempre una buccia: devi bussare, suonare il campanello, attendere che ti aprano, aspettare l’ora in cui l’atmosfera è quella giusta per muovere un passo oltre la soglia, per sapere che cosa si nasconde dietro.
Lo stesso accade anche qui a Cagli, un paesello sulle colline delle Marche.
Le mura antiche e i portoni di legno grandi e spaziosi, che puoi vedere passeggiando per le vie del centro storico, danno qualche indizio su ciò che nascondono, ma non raccontano la storia, nè descrivono la bellezza degli arredi interni.
Le scritte esterne in latino e in italiano definiscono sbrigativamente, per sedare i curiosi: uno spazio, un tempo, un nome.
Ad una certa ora della sera, le porte del teatro comunale si aprono al pubblico. Donne e uomini vestiti elegantemente, ma anche giovani in jeans, entrano a sciami con il desiderio di essere catapultati in un altro mondo: quello del dramma, dell’opera, della danza. Nonostante sappiano di voler entrare in quell’edificio per godersi uno spettacolo, non conoscono la storia di cui è carico quel luogo e non s’immaginano il ruolo che il teatro aveva in Italia in passato.
Dall’inizio del 1600 nella sola regione Marche ogni paesino in collina o in montagna sentì l’esigenza di possedere il proprio teatro entro le mura del paese. Questo fece sì che alla metà del 1900 furono costruiti per questo uso ben 113 edifici e le Marche furono soprannominate “la regione dei cento teatri”.
La maggior parte di questi spazi, è ancora in piedi, di dimensione piccola o media, ospita dai 100 ai 1200 posti a sedere e conserva tutt’oggi la stessa bellezza e lo stesso fascino di un tempo, grazie ad un’opera di restauro iniziata negli anni ottanta.
Il vizio italiano al campanilismo fece sì inoltre, che ogni paese volesse possedere un teatro più bello di quello nel paese accanto, e che la competizione riguardasse la decorazione del soffitto o del telo principale, realizzate dagli artisti allora più in voga, le sculture istallate nelle pareti e nelle mura, le lussuose stoffe con le quali erano tappezzate le sedie e le pareti.
La struttura della maggior parte di questi teatri è all’italiana, con andatura a ferro di cavallo e quattro ordini di palchi, il loggione e la platea.
Il soffitto è impreziosito da eclettiche decorazioni pittoriche, in stile neobarocco, classico e liberty, rappresentanti divinità greche, fiori, cornucopie e putti, ippocampi, statue, busti e sul telone principale è dipinta a volte la veduta della città.
A Cagli, sul coprisipario è rappresentato un avvenimento storico svoltosi in città il 7 settembre 1162: quando l’imperatore Federico Barbarossa consegnò a Ludovico Baglioni Duca di Svevia il bastone di comando della nomina a Vicario imperiale della città di Perugia. Nel soffitto sono dipinte le figure simboliche delle sette arti liberali: Grammatica, Dialettica, Retorica, Aritmetica, Geometria, Astrologia e Musica.
Vicino al palco in una nicchia vi sono i busti di Goldoni e Alfieri, posti vicino a due statue, rappresentanti la tragedia e la commedia.
Entro le mura del teatro, inizialmente recuperate in edifici inutilizzati, la società soddisfava il proprio desiderio di incontrarsi col comune interesse a divertirsi, senza dimenticare la propria classe d’appartenenza. La struttura stessa del teatro, anzi, sottolineava queste differenze: i nobili occupavano i palchi, i borghesi la platea, ed il popolino, partecipava alla serata in piedi, o sulle scomode panche nel loggione.
Nelle serate straordinarie del Carnevale e dei Veglioni, le dame nobili trovavano l’occasione adatta per mettere in mostra raffinate acconciature, vesti di preziose stoffe, diademi, nei e ciprie. Entravano nella hall accompagnate dai propri cavaliere, dove uno stuolo di ammiratori le attendeva per rubar loro un sorriso. Nelle serate ordinarie invece, si apprestavano a lavorare il pizzo a lume di candela chiacchierando con le amiche ai tavolini affacciandosi solo per sentire la canzone preferita.
I Veglioni e le feste da ballo a quei tempi comiciavano tardissimo: dopo le dieci di sera alla luce delle fiaccole, e finivano in tarda mattinata. Le Mascherate in cui tutti si travestivano, nelle sere di Carnevale, erano accompagnate da “tombolate”, il tipico gioco da tavolo delle feste.
Dopo lo spettacolo, la nobiltà, la borghesia e il popolo, si riunivano per danzare ogni tipo di ballo di coppia o di gruppo; dopodichè i signori nobili si dedicavano al gioco d’azzardo nell’apposita sala, mentre il popolino con pochi bajocchi cenava comodamente al bettolino del teatro.
Ma ora torniamo a noi e ai nostri tempi.
Dopo aver bighellonato a lungo in piazza, siamo finalmente entrati in questo spazio che dall’esterno non rappresentava per noi, altro che un antico edificio.
Stringiamo nelle mani il biglietto d’entrata. Una maschera, in giacca rossa e gonna nera, ci indica la via per arrivare al nostro palchetto. Camminiamo sul parquet scricchiolante. Giunti al terzo piano, bussiamo alla porta con indicato il numero scritto sul nostro biglietto. Con un sorriso accogliente ci apre la porta la signora con la quale condivideremo il palco.
Ci sediamo sulla confortevole sedia che cigola leggermente sotto il nostro peso. I graziosi lampadari a forma di ippocampo sono accesi.
Ci sembra quasi di vedere le signore vestite in abiti vittoriani, che cuciono al lume di candela.
Ci sembra quasi di sentire i sussurri nella platea, come sussurri antichi, in una lingua parzialmente comprensibile.
La campanella squilla. I bellissimi lampadari liberty si spengono lentamente; le calde luci retrocedono di fronte al buio che avvolge la sala per il tempo di qualche secondo, l’oscurità ci permette di scivolare e immergerci completamente nello spettacolo e nell’immaginazione.
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